Nel 1985, ben prima che più di ventiquattro milioni di visualizzazioni celebrassero il video in cui Elon Musk raccontava con ironia i sette anni di gloriosi fallimenti di Space X, Umberto Eco, al debutto sulle pagine dell’Espresso, dedicava la sua prima storica Bustina di Minerva alla celebrazione dell’errore e del caso come strumento di scoperta.
Rinomati, a proposito di questo tema, gli esempi di Steven Spielberg accettato dalla scuola di cinema al quarto tentativo, dei dodici rifiuti ricevuti da J.K. Rowling prima di trovare il suo editore, del primo aspirapolvere funzionante costruito da James Dyson dopo 5.127 tentativi ed infine, dell’arcinoto Thomas Edison che produsse circa migliaia di prototipi prima di creare una vera lampadina.
Per quanto ciò possa infastidirci, abbiamo bisogno di sbagliare continuamente nel corso della nostra esistenza per poter imparare, si spera, a fare nuovi errori, nella speranza che essi siano fecondi.
Saper fallire significa commettere errori che incrementano la nostra conoscenza.
Secondo i risultati di uno studio condotto dall’Università John Hopkins, il nostro cervello impara più velocemente dalla ripetizione di un compito motorio, non solo per una ragione legata alla memoria del compito in sé, ma anche grazie agli errori commessi durante l’apprendimento.
L’assimilazione di questa tipologia di compito, infatti, attiva contemporaneamente due processi: uno che immagazzina le novità, impegnandosi nell’apprendimento dei comandi motori; l’altro che si dedica agli errori, memorizzando gli sbagli che sono più degni di attenzione.
Questo secondo processo lascia un ricordo degli errori che si sono verificati, rendendo le esperienze successive migliori e più rapide: il cervello, notando le differenze tra come si aspettava che l’azione corretta si dovesse svolgere e come effettivamente si è svolta, usa queste informazioni per eseguire l’attività più agevolmente, la volta successiva. Queste piccole differenze sono definite scientificamente “errori di predizione” e la loro elaborazione è in gran parte inconscia.
Possiamo raggiungere risultati rilevanti anche quando commettiamo un errore.
Pensiamo di percepire il mondo per come esso è, ma il nostro cervello non è uno specchio, né riceve informazioni sufficienti per riprodurre fedelmente la realtà che ci circonda: poiché il mondo che abitiamo è tridimensionale ma la sua immagine sulla retina è bidimensionale, non percepiamo direttamente le distanze, ma dobbiamo affidarci a stratagemmi intelligenti, basandoci su indizi come le ombre, le luci e la prospettiva;
Gli psicologi della Gestalt hanno ampiamente utilizzato le illusioni ottiche per spiegare come alcuni errori percettivi, definiti da Von Helmholtz inferenze inconsce, possano comunque produrre risultati tanto buoni da far affermare a Gigerenzer:
“l’intelligenza non è la capacità di riprodurre accuratamente ogni singola informazione, ma l’arte di indovinare a partire dalle informazioni a nostra disposizione. Il sistema visivo, ad esempio, non è un buon misuratore fisico della luce, ma non è questo il suo scopo. Deve andare oltre le informazioni che riceve e fare ipotesi su quello che c’è nel mondo reale. Commettere questi errori non è un difetto; se non ne facessimo non riconosceremmo gli oggetti intorno a noi”
Difendersi dal fallimento significa negare il principio su cui si basa la natura.
In ogni processo innovativo naturale, l’errore svolge un ruolo determinante: non ci sarebbe il nostro universo senza un’asimmetria spaziale insita nel Big Bang, non ci sarebbe un’evoluzione naturale delle diverse specie se il DNA non commettesse errori nella sua duplicazione.
In natura, insomma, se alla base del “nuovo” si nasconde sempre un errore, forse, è necessario convincersi che un risultato indesiderato sia fondamentale anche per la cultura e per molte delle attività umane.
Le idee, e in particolare le idee innovative, sono frutto di esplorazioni, spesso casuali e non logiche, ed è giusto ricordare che solo grazie a un grandissimo numero di questi processi esplorativi si è giunti a risultati di utilità, all’errore giusto. Gli altri, utilizzando una forma paradossale, sono errori sbagliati.
Per coltivare la cultura dell’errore dobbiamo silenziare il senno di poi.
Sintetizzabile in quella vocina stridula che esclama “Te l’avevo detto!”, il fallimento sembra più prevedibile dopo che è già accaduto.
Il termine Hindsight Bias si riferisce alla tendenza che le persone hanno a vedere gli eventi come più prevedibili di quanto non siano in realtà. Prima che si verifichi un evento, sebbene possiamo essere in grado di offrire un’ipotesi sul risultato, non c’è davvero alcun modo per sapere effettivamente se falliremo.
Il senno di poi può influenzare negativamente la nostra propensione al rischio e, quindi, anche la nostra relazione con il fallimento, perchè parte di ciò che serve per prendere buone decisioni è valutare realisticamente le conseguenze degli errori che possiamo compiere.
Se guardiamo indietro alle decisioni passate e concludiamo che le loro conseguenze ci erano effettivamente note all’epoca (quando non lo erano), allora sovrastimeremo la nostra capacità di prevedere le implicazioni delle nostre decisioni future e la nostra eccessiva sicurezza può portarci a non compiere errori che potrebbero rivelarsi fruttiferi.
Alcune evidenze empiriche dimostrano che i fallimenti attraggono più dei successi
Nel 2016, Johannes Haushofer, professore di psicologia e neurobiologia all’Università di Princeton, decise di pubblicare su twitter il suo curriculum dei fallimenti che elencava i progetti mai portati a termine, le promozioni mai arrivate, gli articoli rifiutati dalle riviste scientifiche.
Già qualche anno prima, il creativo Jeff Scardino aveva sperimentato il fascino esercitato dei propri fallimenti attraverso una doppia candidatura a dieci annunci di lavoro nell’area di New York City in cui proponeva un regular resumé e, in alternativa, un relevant resumé attraverso cui ottenne ben otto risposte e cinque richieste di colloquio.
Rufus Griscom, il fondatore della rivista online per genitori e della rete di blog Babble, fallì diverse presentazioni ai venture capitalist presentando i successi ottenuti dalla propria start up sino al 2009 quando, cambiando totalmente tattica, iniziò a elencare i diversi motivi per non finanziare la propria azienda raccogliendo oltre 3,3 milioni per poi vendere nel 2011, attraverso la medesima tecnica, la propria creatura alla Disney Corporation per 40 milioni di dollari.
Cosa vuol dire celebrare il fallimento?
Non sono convinto che i miei errori meritino un museo come quello allestito dallo psicologo Samuel West a Helsingborg in Svezia per festeggiare i più clamorosi fiaschi della storia.
Forse, per iniziare questo nuovo anno, desidero misurarmi con una sfida che sfrutti il mio orgoglio in modo contro intuitivo rispetto a quanto fatto sino ad ora.
Così, ho deciso di introdurre anch’io nella mia value proposition una slide che elenca qualche buon motivo per non essere scelto dalle organizzazioni presso le quali mi accredito.
Svelando i miei limiti e i miei retroscena, voglio sperimentare la prospettiva di chi non trattiene il respiro per nascondere la pancetta al primo appuntamento, riservandosi poi di allargare la cinghia quando una certa continuità di collaborazione renderà meno pericoloso chiamare una parte dell’esperienza maturata con il nome di fallimento.
Poiché la redazione di questa slide si rivelata più faticoso del previsto ed il risultato non mi ha soddisfatto pienamente, ho abbandonato questo compito per dedicarmi ad altro. L’ho ripresa qualche giorno fa quando ho letto una frase di Reid Hoffman, co-fondatore di Linkedin che recita:
“Se non ti vergogni della prima versione del tuo prodotto significa che l’hai lanciato troppo tardi”
ma che per qualche meccanismo associativo ho modificato in questo modo per adattarla al mio scopo:
“Se non ti vergogni almeno un poco della prima versione del tuo prodotto significa che non hai commesso nessun errore da cui puoi imparare”.
Bibliografia
Baldriga P., Guarnieri R., “Coaching e neuroscienze”, ilmiolibro-self-publishing, 2018
Gigerenzer G., Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Raffaello Cortina, 2015
Mercandini R., Storia perfetta dell’errore, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli 2019
Sutton R., Idee strampalate che funzionano. Come promuovere la creatività e l’innovazione nell’ambiente di lavoro, Elliot, 2008
Grant A., Essere originali. Come gli anticonformisti cambiano il mondo, Hoepli, 2016
https://www.youtube.com/watch?v=bvim4rsNHkQ
http://www.jeffscardino.com/the-relevant-resume/
nte al feedback che siamo in procinto di ricevere sulla base di quanto percepiamo attrattivo o minaccioso il tema su quale ipotizziamo si svilupperà la conversazione.