Mentre i nativi di Tahiti classificano la paura sulla base delle tipologie di reazione fisica che essa produce, i Pintupi dell’Australia occidentale usano almeno quindici parole diverse per descrivere l’intera gamma delle emozioni ad essa riconducibili.
La paura, emozione tanto primordiale quanto cruciale per l’evoluzione della nostra specie, spinse Charles Darwin, nel 1872, ad affermare: “Possiamo credere che fin da un tempo remotissimo la paura sia stata espressa dall’uomo in maniera quasi identica a quella di oggi”.
Oggi la sensazione di vulnerabilità persistente cui siamo sottoposti alimenta declinazioni emotive riconducibili alla paura che possono attivare reazioni spontanee e funzionali non controllabili dalla ragione.
Se il “cervello razionale” cerca di controllare e soffocare le naturali reazioni del nostro organismo infatti, entriamo nel ciclo per cui più controlliamo più perdiamo il controllo, mantenendo involontariamente la mente ingabbiata nella lotta tra paleoencefalo (che gestisce le sensazioni di base) e neocorteccia (che sovrintende al pensiero logico-razionale).
Di conseguenza, la nostra percezione dei sintomi della paura sarà esagerata perché il cervello arcaico, adibito a gestire la paura, cerca inesorabilmente di sottomettere la razionalità, alimentando l’intensità dei sintomi stessi.
In definitiva, più cerco di non provare paura, più la provo.
L’assunzione di Rabindranath Tagore ci indica che “In natura esiste la paura, non il coraggio, che altro non è che la paura vinta”.
Secondo Giorgio Nardone,
“da un punto di vista neuropsicologico l’atto volontario di alimentare la paura produce un paradosso psicofisiologico; il meccanismo è analogo a quello del limitatore di potenza dei motori che oltre un certo “limite di giri” blocca la produzione di energia, riconducendola sotto la soglia di controllo.
In altri termini, quando la paura viene alimentata volontariamente, il nostro sistema nervoso riduce drasticamente la sua attivazione, e i parametri fisiologici si resettano a livello di funzionalità; tutto ciò retroagisce sulla percezione della minaccia, azzerando la sensazione di pericolo”.
“Spegnere il fuoco aggiungendo la legna” è l’espressione in aforisma codificato da questo principio di logica paradossale, citando Sri Yukteswar “Guarda la paura in faccia e cesserà di turbarti”.
La logica paradossale contravviene al principio di “coerenza interna” della logica ordinaria, evidenziando come quello che in apparenza conduce verso una direzione, cioè accrescere le fiamme, oltre un certo livello produce il suo opposto, cioè soffocare le fiamme.
Nelle logiche paradossali il vero e falso possono, quindi, sovrapporsi e integrarsi.
A tal proposito Ippocrate, il primo dei grandi medici, affermava che “il simile cura il simile”
La differenza principale tra logica lineare e logica non ordinaria è che con la prima si conosce per poi cambiare, mentre con la seconda si cambia per poi conoscere; questo approccio implica effetti notevoli sul nostro modo di costruire la conoscenza, sui processi di cambiamento e di apprendimento.
Le logiche non ordinarie riguardano tre macro aree, ovvero tre criteri applicativi: la logica del paradosso, della contraddizione e della credenza. Queste logiche, formalizzate da Newton da Costa, non sono altro che quelle che abitualmente utilizziamo e sono le stesse che strutturano e mantengono i problemi, quando divengono rigidi criteri del modo di percepire, sentire, agire, pensare.
La logica lineare o, se preferite, la reazione istintuale con cui affronteremmo lo spegnimento del fuoco, ci spingerebbe dunque a togliere la legna, un po’ come la nostra razionalità ci induce ad occuparci il meno possibile di questa emozione in attesa che tutto si risolva per il meglio.
Spingere la propria mente ad alimentare volontariamente scenari spaventosi conduce all’annullamento di questi: una volta compreso il meccanismo dello stratagemma ci appare ovvio, ma sino ad un attimo prima ci sembrava un modo per far divampare un incendio.
Tale approccio si sintetizza nella tecnica della “peggiore fantasia”, un protocollo di intervento strutturato in diverse fasi la cui durata deve essere calibrata sulla base del soggetto cui si fa questa prescrizione.
Nella prima fase è necessario ritagliarsi esattamente trenta minuti al giorno in un ambiente protetto da disturbi per cercare di pensare il più intensamente possibile alle nostre paure, calandoci nel peggio e lasciandoci andare a tutto quello che le nostre emozioni ci inducono a fare. Quando tutto il tempo a nostra disposizione è esaurito torniamo alla nostra giornata.
Nella seconda fase del protocollo il compito della peggiore fantasia si evolve: i trenta minuti a nostra disposizione per cercare le nostre angosce, paure e timori sono distribuiti in mini sessioni di cinque minuti da ripetere cinque volte al giorno nell’arco della giornata, questa volta, senza isolarci, perché sarà un compito mentale. Concentreremo tutto quello che facevamo in mezz’ora in cinque minuti continuando a fare quello che stavamo facendo. Saremo noi a dare la caccia alle nostre paure per scacciarle senza che ci scuotano.
Quando avremo, infine, imparato ad usare i cinque minuti di peggiore fantasia in due modalità: come strategia di prevenzione, evocando le nostre paure in anticipo per canalizzarle ed esserne più libero al momento di fronteggiarle, oppure come pronto intervento, amplificando le nostre paure per condurle mentalmente all’esasperazione sino a scioglierle.
Annullare una cosa accrescendola sino al punto di rottura. Alimentare per ridurre. Provocare per inibire.
Nardone G., 2013 “Psicotrappole”, Ponte alle Grazie, Milano
Nardone G., 2004, “Il dialogo strategico”, Ponte alle Grazie, Milano
Nardone G., 2015, “Non c’è notte che non veda il giorno”, Tea libri Milano
Nardone G., 2014 “Oltre i limiti della paura”, BUR, Milano
Nardone G., 2004 “Paura, panico, fobie”, Ponte alle Grazie, Milano