Grazie per il Feedback!

Credo che ad un certo punto dovremmo smettere di formare esclusivamente le persone che danno feedback e sviluppare la capacità di accoglierli ed elaborarli da parte di chi li riceve.

La maggior parte dei neuroscienziati ritiene che il modo migliore per misurare Il potenziale di adattamento di un essere vivente sia contare il numero di feedback che il suo sistema nervoso è in grado di ricevere ed elaborare. 

Molti autori, tra cui Raymond W. Kulhavy e William A. Stock dell’Arizona State University, sostengono che un feedback efficace debba contenere una componente valutativa e una informativa che abbia, oltre alla risposta corretta, indicazioni aggiuntive su tema, errori commessi e soluzioni.

Robert B. Ammons, dottore di ricerca in psicologia clinica sperimentale, sostiene che un ritardo nell’invio del feedback ne comprometta l’effetto sulla performance, mentre il professor Bourne Lyle della Colorado University replica che, se le attività svolte durante l’attesa non impediscono di richiamare alla memoria il comportamento in esame, posticiparlo non pregiudica l’apprendimento.

La letteratura di riferimento è affollata di tecniche che descrivono come formulare il feedback perfetto, ma, quanto a saperlo ricevere, ho trovato poche informazioni significative.

Eppure, se il feedback è sostanzialmente un processo dialogico tra due attori, dovremmo pensare a come rendere entrambi i personaggi efficaci a livello conversazionale, abbandonando l’idea che l’esito di quella performance dipenda solo ed esclusivamente dalle tecniche che abbiamo trasmesso alla fonte emittente e non anche dal metodo che guida il suo destinatario.

Tutti i giorni riceviamo un numero sconfinato di riscontri destrutturati ed informali ai messaggi che inviamo in forma analogica e digitale, ma solo una piccola parte di essi sopravvive ai nostri meccanismi di difesa per guadagnare la luce dei riflettori di un processo di elaborazione più approfondito e trasformativo.

Assunto, dunque, che una corretta esecuzione tecnica è indispensabile per un risultato efficace, mi sono confrontato con persone di indubbia capacità tecnica che non sono soddisfatte degli esiti che raggiungono durante alcuni colloqui. 

E se fossero le tecniche conversazionali del destinatario la chiave di volta per raggiungere il successo in queste situazioni?

Riteniamo di avere varie ottime ragioni per non raccogliere un feedback e la prima di queste è giudicare il suo contenuto falso, ingiusto o semplicemente inutile. 

Così come scegliamo un film o un libro attirati dal titolo senza conoscerne la trama, allo stesso modo tendiamo a reagire anticipatamente al feedback che siamo in procinto di ricevere sulla base di quanto percepiamo attrattivo o minaccioso il tema su quale ipotizziamo si svilupperà la conversazione.

La rapidità con cui possiamo giungere a tali valutazioni persino prima di aver iniziato effettivamente il colloquio è il risultato di un’urgenza classificatoria che ci spinge a cercare presagi di pericolo o indizi di controllo della conversazione in cui siamo immersi o che siamo in procinto di affrontare.

La ricerca dei segnali di potenziale pericolo favorisce l’attivazione del “confirmation bias”, cioè “la ricerca o l’interpretazione di prove in modo che siano favorevoli a esistenti credenze, aspettative o ipotesi del soggetto interpretante”.

Secondo lo psicologo Raymond Nickerson, le persone in uno stato di allerta sono particolarmente soggette alla psicotrappola dell’autoinganno perchè vanno alla ricerca di informazioni convalidanti ma non diagnostiche (valutative) delle emozioni, siano esse positive o negative, con cui si approcciano al colloquio di feedback.

Le presunzione, rapidamente divenuta certezza, di un potenziale pericolo, innesca il sistema nervoso autonomo che libera l’adrenalina ed il cortisolo necessarie ad esprimere reazioni più o meno esplicite di attacco, di distacco o di diniego dei messaggi che riceviamo.

 

Siamo consapevoli delle emozioni con cui affrontiamo quello specifico colloquio di feedback?

La funzione delle emozioni spiacevoli di cui facciamo esperienza prima e durante il colloquio è informarci che alcune reazioni di difesa sono in atto, ed è solo la condivisione di tali resistenze con il nostro interlocutore che ci permette di condividere la responsabilità di ricevere un feedback efficace.

Il feedback, poi, è una massiccia testimonianza della soggettività dell’altro: le azioni e i comportamenti oggetto di allineamento sono espressi da (poche) storie ordinate attraverso le etichette interpretative dell’osservatore. 

Tanto meno condividiamo quelle interpretazioni, tanto più la nostra interlocuzione sarà istintivamente orientata ad attribuire alle narrazioni che ci vengono presentate un’eccezionalità che ne invalida la rilevanza ai fini della ricalibrazione dei nostri comportamenti futuri. 

Dal momento che possiamo essere inconsapevoli di un nostro atteggiamento ma non delle nostre intenzioni, tendiamo ad assumere il controllo della conversazione dirottandola all’interno del nostro inviolabile perimetro di coscienza. 

 

Quale contributo vogliamo dare all’esplorazione delle informazioni che riceviamo? 

Evidenziare le intenzioni che ci spingono ad agire in una situazione che classifichiamo come eccezionale riduce la tensione emotiva che avvertiamo, ma favorisce meccanismi autoassolutori che ostacolano la ricerca di storie analoghe da cui trarre indicazioni utili per la calibrazione del nostro riorientamento.

Contrariamente ad esporre le ragioni che muovono il nostro operato, rendersi protagonisti del proprio feedback significa alimentare la conversazione attraverso la narrazione di episodi simili, per gli impatti generati sugli altri, a quelli che ci sono stati proposti dal nostro interlocutore con l’obiettivo di scrivere una narrazione congiunta in cui è più facile riconoscerci e motivarci.

La valutazione del feedback che riceviamo è, inoltre, indissolubilmente influenzata da quello che pensiamo del nostro interlocutore oppure al modo in cui ci sentiamo trattati dallo stesso (dopo tutti gli sforzi che ho fatto, con che coraggio ti soffermi su questo dettaglio?).

La difficoltà di separare “chi condivide le sue percezioni” da “che cosa ha percepito” innesca un meccanismo attraverso il quale utilizziamo il contenuto dei messaggi che riceviamo per discutere, in modo più o meno esplicito, la qualità della relazione con il nostro interlocutore.

Con lo switch tracking il destinatario del feedback biforca il flusso della conversazione per ristabilire la gerarchia delle tematiche che desidera affrontare, provocando una ciclo di scambi a due tracce potenzialmente paralizzante per la produttività del colloquio.

Il cambio di tracciamento può avvenire silenziosamente quando riceviamo feedback da qualcuno con cui abbiamo un rapporto di fisiologica asimmetria, come nel caso della relazione gerarchica capo collaboratore, oppure emergere, sorprendendo l’altro per la veemenza con cui si manifesta. 

Con buona pace del nostro autocontrollo, non saremo mai capaci di celare alla percezione del nostro interlocutore il nostro switch tracking, giacché la nostra comunicazione para-verbale e non verbale tenderà a trasmettere l’insofferenza all’argomento che stiamo trattando e, anzi, lasceremo all’altro lo spazio per eludere il topic pregiudicando l’efficacia dei colloqui futuri.

A quale tema stiamo reagendo durante il colloquio? C’è qualcosa di altrettanto importante di cui vorremmo parlare? 

La consapevolezza della tendenza a cambiare il tema su cui è focalizzata la conversazione può permetterci di mettere in pausa il colloquio di feedback e richiedere che vengono discussi non due punti di vista diversi sul medesimo argomento bensì due temi, meglio se in colloqui separati, invece di lottare continuamente affinché l’altro colga direzioni di sviluppo e crescita a noi care. 

Essere protagonisti dei feedback che riceviamo ci spinge ad un lavoro di ascolto attivo, con necessità di un impegno logico-emotivo sistematico che ha bisogno di allenamento e costanza, ma come disse un anonimo:

 “Il sasso. La persona distratta vi è inciampata. Quella violenta, l’ha usato come arma. L’imprenditore l’ha usato per costruire. Il contadino stanco invece come sedia. Per i bambini è un giocattolo. Davide uccide Golia e Michelangelo ne fece la più bella scultura. In ogni caso, la differenza non l’ha fatta il sasso, ma l’uomo”

Non esiste sasso nel tuo cammino che tu non possa sfruttare per la tua crescita, esattamente come non esiste un colloquio di feedback all’interno del quale non sia possibile assumere un ruolo di coprotagonista.

Bibliografia

Mauro Scardovelli, Feedback e cambiamento, Boria, 1998

Bruno F. Galli, Feedback. La cultura del coraggio e della considerazione, Lastaria Edizioni, 2019

Angela Gallo, Parlami, capo…, Franco Angeli, 2017

Shirley Poertner, L’arte di dare e ricevere feedback, Franco Angeli, 2015

Andrea Laudadio, Grazie del feedback: L’arte di dare e ricevere feedback per migliorare la performance, Franco Angeli, 2017

 

La grammatica del time management

I fisici dicono che il tempo non trascorre, il tempo semplicemente è.

Abituati a rappresentarlo, nella tradizione occidentale, attraverso una linea retta che dal passato avanza verso il futuro passando per il presente, il tempo è raffigurato dalla scienza come una complessa collezione di strutture coniche e di strati unici per ordine, durata e ritmo degli eventi in esse contenuti.

Cosi come ogni essere umano ha degli antecedenti, dei discendenti e altri individui che non fanno parte di quell’insieme parzialmente ordinato dalla relazione di figliolanza, ogni evento ha il suo passato, il suo futuro e una parte di universo che non gli appartiene né in termini di passato, né di futuro.

Scrive Carlo Rovelli: 

“A livello fondamentale il mondo è un insieme di accadimenti non ordinati nel tempo. Questi realizzano relazioni fra variabili fisiche che sono a priori sullo stesso piano. Ciascuna parte del mondo interagisce con una piccola parte di tutte le variabili, il cui valore determina lo stato del mondo rispetto a questo sottosistema”.

Ogni punto dello spazio ha un tempo proprio, come è possibile verificare, attraverso cronografi molto precisi, misurando le differenti velocità con cui il tempo scorre in montagna piuttosto che in pianura o persino quando gli strumenti di misurazione si trovano a pochi centimetri di dislivello l’uno dall’altro.

La velocità poi rallenta o, più precisamente, dilata il tempo come è stato misurato per la prima volta negli anni settanta portando a bordo di aerei a reazione orologi scientifici che perdevano alcuni nanosecondi rispetto a quelli di egual calibro collocati a terra. 

La nozione di “adesso”, secondo il matematico Kurt Gödel, non è niente di più che una certa relazione di un certo osservatore con il resto dell’universo; persino quando guardo i miei figli giocare nella stessa stanza in cui mi trovo, ricevo e processo, attraverso la luce che colpisce i loro corpi, le informazioni di qualche miliardesimo di secondo prima.

Il nostro “presente” è una bolla in cui siamo immersi, la cui estensione dipende dalla precisione con cui misuriamo il tempo; nell’ordine elementare delle cose descritto dalla gravità quantistica, la disciplina che studia le unità minime dello spazio e del tempo, esiste un intervallo di tempo così infinitesimale che rende la nozione di durata inesistente. 

Sebbene i meccanismi neuronali alla base della nostra capacità di percepire il tempo rimangano in gran parte sconosciuti, è stato ampiamente documentato da numerose ricerche che l’esperienza del tempo è creata dalla mente e che tale abilità è inestricabilmente legata alle fluttuazioni dello stato della coscienza.

Ed ancora, la parziale coincidenza tra le zone del cervello che riconoscono le emozioni e il tempo rende indissolubile il rapporto tra gli stati d’animo che sperimentiamo e la nostra capacità di gestirlo.

Alla base di questo meccanismo biochimico c’è la dopamina, il neurotrasmettitore associato alle sensazioni del piacere, la cui inibizione o attivazione temporanea influenza i nostri orologi biologici abbassando o accelerando la percezione del tempo che passa.

Come hanno dimostrato numerosi esperimenti, non è necessario che l’emozione spiacevole che proviamo sia particolarmente intensa affinché questo meccanismo neurologico si attivi influenzando la durata percepita di uno specifico evento.

Jean Twenge dell’Università di San Diego ha coinvolto un gruppo di partecipanti in un esperimento così congegnato: ai soggetti è stato detto di fare conoscenza, raccontando episodi umoristici. Successivamente, i volontari sono stati informati che, poiché il lavoro si sarebbe svolto a coppie, avrebbero dovuto segnare su un foglio i nomi di 2 persone con le quali sarebbe loro piaciuto lavorare.

I volontari sono stati, poi, chiamati a uno a uno. A metà di loro è stato raccontato che erano stati scelti da tutti e che non si era riusciti a formare delle coppie; a metà degli altri è stato detto che nessuno li aveva scelti, che questo non era mai successo e quindi era meglio che lavorassero da soli. 

Tutti hanno poi compilato singolarmente un breve questionario.

Le persone a cui era stato riferito che piacevano a tutti valutarono che il test fosse durato 42,5 secondi (in media); mentre chi era stato rifiutato valutò la durata di 63,6 secondi circa, quasi un terzo del tempo in più.

Come possiamo controllare, dunque, il tempo o, più precisamente, la percezione che abbiamo di esso?

Se è la spiacevolezza delle emozioni di cui facciamo esperienza che etichetta il tempo a nostra disposizione come un ostacolo o una minaccia, per migliorare il nostro time management dobbiamo sviluppare ed allenare la nostra intelligenza emotiva, con specifica focalizzazione alla capacità di metterci nello stato emozionale più adatto a svolgere quello specifico compito rispetto al quale il tempo sembra essere un nemico.

Il primo passo di questo processo trasformativo è necessariamente legato alla comprensione della miscela di emozioni che proviamo rispetto a quell’attività. 

Questa metacognizione, semplice da descrivere ma per niente banale da praticare, necessita in primo luogo che venga abbandonato un approccio autovalutativo e, in seconda battuta, che vengano esplorate le emozioni meno ingombranti di quella prevalente ma, non per questo, meno ricche di informazioni a cui possiamo attingere.

Secondo le ricerche condotte da Six Seconds, la verbalizzazione delle nostre emozioni consente la disattivazione delle attività dell’amigdala, il nostro grilletto neurale che reagisce agli stimoli giudicati come pericolosi, a favore della riattivazione della parte neo corticale del nostro cervello, per riportare in equilibrio la parte razionale e la parte emotiva.

Così, interrompendo il ritmo del ciclo incrementale che produce la sensazione di non avere tempo, riduciamo la reattività dei nostri comportamenti recuperando la capacità di leggere i dettagli della situazione codificata come pericolosa e la capacità di formulare soluzioni adattative meglio calibrate.

Riportando in equilibrio la parte razionale e la parte emotiva possiamo attivare refraining della nostra prospettiva: così come il coraggio è la capacità di utilizzare le informazioni veicolate dalla paura, siamo ora nella condizione biochimica di scegliere, tra le emozioni più silenziose, quella che più si addice ad essere la risorsa strategica attraverso la quale riappropriarci dell’illusione di controllare il tempo.

Albert Einstein qualche anno fa scrisse:

“Il tempo è relativo, il suo unico valore è dato da ciò che facciamo mentre passa” 

ed io oggi credo che allenando la nostra intelligenza emotiva si possa aggiungere che il suo valore è dato dall’emozioni con cui scegliamo di percepire il suo fluire nel nostro presente, di guardare il passato ed infine di immaginare il futuro.

Bibliografia:

Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi Edizioni, 2017

Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, 2014

Joshua Freedman, Intelligenza emotiva al cuore della performance, Six Seconds, 2018

Pert B. Candace, Molecules Of Emotion: Why You Feel The Way You Feel, Simon & Schuster, 1999

Daniel Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva, BUR, 2000

 

L’importanza di anticipare il futuro

La storia è testimone di un ricco assortimento di predizioni sbagliate.

Charles Duell, capo dell’ufficio marchi e brevetti degli USA, nel 1899 sosteneva che non ci fosse più spazio per nuove idee perché ogni cosa che poteva essere inventata, era già stata inventata.

Thomas Watson, capo di IBM, nel 1943 riteneva che solo cinque computer sarebbero bastati per le esigenze del futuro mercato dell’informatica e nel 1981 Bill Gates sosteneva che 640k di memoria fossero abbastanza per qualsiasi uso e per chiunque.

Sebbene mi piaccia pensare che l’origine dei future studies debba essere attribuita alla notte dei tempi, nel momento in cui il genere umano ha iniziato ad interrogarsi sull’avvenire, la nascita di questa disciplina sul piano scientifico risale solo alla prima metà del secolo scorso, quando il dipartimento della difesa statunitense ne fece un ampio utilizzo dalla seconda guerra mondiale in poi per anticipare e contrastare le possibili minacce provenienti dalla guerra fredda.

Tali tecniche, denominate ancora oggi “forecasting”, impiegavano dati quantitativi ed econometrici focalizzati su precise tematiche per descrivere uno stato presente ed individuare, mediante l’elaborazione di dati storici, il futuro probabile.

Questo approccio lineare si diffuse rapidamente in ambito aziendale sino al 1973, quando l’embargo dei paesi dell’area OPEC avviò la paralisi della fornitura di greggio per i colossi petroliferi dell’epoca, fatta eccezione per la multinazionazionale anglo-olandese Royal Dutch Shell che aveva iniziato, sin dal 1967, ad acquisire pozzi petroliferi in Sud America e nell’Est Europa per affrontare uno degli scenari descritti dallo studio sul futuro che aveva formulato qualche anno prima dello shock petrolifero.

In quell’occasione, come in altre meno note alle cronache, la sola lente retrospettiva manifestò tutta la sua inadeguatezza perché anticipare il futuro a partire dal passato, anche quando la proiezione viene svolta attraverso il più rigoroso approccio scientifico, si riduce a determinare ciò che si produrrà se il fenomeno studiato resterà immobile, fuori dal tempo.

Così, per limitare la propria esposizione a fenomeni emergenti ed a eventi inattesi, si diffuse nella pratica strategica il “foresight”, termine coniato da Irvine e Martin nel 1984 e definito da Horton a ridosso del ventunesimo secolo come

“il processo che sviluppa un insieme di possibili modi in cui il futuro potrà svilupparsi e che consente di comprenderlo per supportare il processo decisionale di oggi finalizzato a creare il miglior domani possibile”. 

Scevro dalla presunzione di affrontare il futuro basandosi su una sola alternativa possibile, il foresightseeing descrive presenti coesistenti, esplora diversi percorsi possibili costruiti sulla base di trend e di segnali deboli e ipotizza diversi scenari possibili sforzandosi di considerare anche i cigni neri che impattano sia sui presenti che sui percorsi tracciati.

Con il passare del tempo anche il futuro sembra essere invecchiato e, come talvolta accade per le persone, ha inasprito le sue caratteristiche al posto di mitigarle. 

La moltiplicazione esponenziale di segnali deboli da monitorare, trend caratterizzati da cicli di vita sempre più brevi e l’incremento della frequenza con cui si verificano cigni neri sembrano rendere la pianificazione su lunghi orizzonti temporali un esercizio realizzabile solo dalle intelligenze artificiali più evolute. 

Affermava il filosofo e psichiatra Ronald Laing

“Viviamo in un momento storico in cui il cambiamento è così accelerato che cominciamo a vedere il presente solo quando sta già scomparendo”.

Nelle previsioni, la decodifica del genoma umano avrebbe dovuto richiedere cent’anni, ne sono bastati 25. Nel 1975 Jane Bottenstain del CIT & MIT affermava: “Ci vorranno più di 100 anni prima che possiamo decodificare l’intero genoma umano”. Nel 1992 Matt Ridley, biologo e giornalista scientifico, asseriva: “Ci vorranno ancora 30 o 40 anni prima che si riesca a completare il genoma umano”, ma Craig Ventur e Francis Collins dello Human Genome Project ci sono riusciti nel giugno del 2000. 

La trasformazione delle situazioni nelle quali oggi, come individui ed organizzazioni, ci troviamo ad operare, è tanto rapida da poter affermare che il “divenire è in anticipo sulle idee” (Berger 1957) e che le conseguenze delle decisioni prese oggi si produrranno in un mondo completamente diverso da quello nel quale sono state preparate.

Non solo nel mondo attuale la velocità con cui avvengono i fenomeni è sempre maggiore, ma gli effetti del cambiamento sono sempre più forti a causa di una fitta rete di interconnessioni e di interdipendenze. 

Nel romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” i vari personaggi raccontano la propria storia per immagini, disponendo via via sul tavolo le carte dei tarocchi; così come nell’opera di letteratura combinatoria scritta da Italo Calvino tutte le storie

“nascono da un numero finito di elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardo di miliardi”,

l’evoluzione di un sistema complesso non è prevedibile, tanto più quando si trova in un istante temporale in cui ogni tarocco può entrare a far parte di molte sequenze, cioè di tanti racconti che interrompono il passato dei protagonisti per sospenderli in un presente instabile e biforcato. 

La biforcazione, più comunemente chiamata “Butterfly Effect”, racchiude in sé la nozione più tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali ed è il punto in cui un elemento si ramifica, si duplica e si ripartisce in più sotto-elementi attivando una rottura della simmetria che può tendere ancora all’equilibrio oppure al non-equilibrio.

Si ha una biforcazione dunque quando una piccola variazione dei valori dei parametri che regolano il sistema in condizioni di stabilità genera un cambiamento del sistema stesso, tanto che i punti di equilibrio non sono più gli stessi in termini di quantità e/o natura.

Poiché dopo un punto di biforcazione si diramano i futuri possibili, non possiamo fare alcuna previsione se non consideriamo differenti scenari forse improbabili ma non impossibili.

La maggior parte dei fenomeni, nella loro complessità, non è, dunque, pronosticabile: è impossibile prevedere con certezza quale sarà lo specifico stato futuro di un sistema complesso nel quale il cambiamento è interconnesso, accelerato e discontinuno.

Se il futuro non è prevedibile, la competizione si sposta sul piano della percezione del futuro: abbiamo bisogno di dotarci di una persistente consapevolezza e di un set di capacità critiche nell’analisi del futuro perché non siano solo le nostre euristiche a discernere il comportamento migliore tra le alternative disponibili in un momento storico nel quale l’avvenire è un multiplo, indeterminato e aperto a una grande varietà di futuri possibili. 

Eppure, guidati dal nostro confirmation bias, interpretiamo ancora il presente e prevediamo troppo frequentemente il futuro facendo riferimento alle nostre esperienze passate dando maggiore rilevanza agli scenari che confermano la nostra ipotesi di partenza e le nostre convinzioni.

Nella turbolenza, il valore intrinseco delle nostre riflessioni sul futuro non risiede tanto nella correttezza o meno della previsione stessa, quanto dall’utilità dei comportamenti che adottiamo per rispondere all’estrema incertezza dagli scenari improbabili che ipotizziamo di dover fronteggiare.

Alessandro Baricco utilizza la metafora dei barbari per descrivere l’invasione del cambiamento, la rivoluzione del futuro dentro la quale possiamo puntare i piedi, difenderci o resistere aspettando. 

Secondo lo scrittore, la Grande Muraglia insegna che qualsiasi civiltà, nella lotta contro il cambiamento, “finisce per scegliere non la strategia migliore per vincere, ma quella più adatta a confermarsi nella propria identità”. 

La Grande Muraglia, secondo lo scrittore, era stata concepita non tanto per difendere dagli invasori che portavano il cambiamento, ma per costruire un confine della civiltà, per delimitarla: 

“Non difendeva dai barbari: li inventava. Non proteggeva la civiltà: la definiva”.

Ora è inutile sottrarsi alla turbolenza in cui siamo immersi: diventa importante, piuttosto che erigere muraglie su un confine che non esiste, scegliere cosa, del mondo vecchio, si desidera portare fino al mondo nuovo. 

Scrive Alessandro Baricco

“Nella grande corrente, porre in salvo ciò che ci è caro. È un gesto difficile perché non significa, mai, metterlo in salvo dalla mutazione, ma, sempre nella mutazione. Perché ciò che si salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo”. 

Se è, dunque, impossibile portare nel futuro il passato intatto, è possibile far evolvere il nostro presente per rendere la nostra azione sul futuro plasmante rispetto a quello che prevediamo esso sia.

Bibliografia

Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, 2006 

Italo Calvino, Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, Ricci, 1969.

Bubbio A., Dipak P., Agostoni L., Gueli Alletti A., Gulino D., Scenario Planning. Per presagire più che prevedere l’evoluzione di un business, Ipsoa 2014

De Toni A.F., Siagri R., Battistella C., Anticipare il futuro. Corporate Foresight, Egea, 2015