Imparare a disimparare

Per riuscirci “devi disimparare quello che hai imparato”, spiega il maestro Yoda al giovane Luke Skywalker quando il giovane jedi fallisce nel tentativo di estrarre la propria astronave dalla palude con la forza, citando Zygmunt Bauman che avrebbe definito, diverso tempo dopo ed in un’altra galassia, la capacità di apprendere a disapprendere come: 

“un elemento centrale e indispensabile dell’equipaggiamento della vita” ricordandoci che “il problema degli uomini post moderni dipende dalla velocità con cui riescono a sbarazzarsi di vecchie abitudini piuttosto che da quella con cui ne acquisiscono di nuove”.

Queste, come altre indicazioni simili, risultano provocatorie se consideriamo l’eccellenza come il risultato, mai pienamente conseguibile, di una costante progressione lineare di crescita e perfezionamento delle capacità che desideriamo padroneggiare con grande maestria. 

Come per lo sviluppo scientifico, sembra che l’eccellenza sia soggetta ad un processo più ciclico fatto di flussi e reflussi, crescite e declini nei quali compiere, al momento giusto, quello che l’epistemologo Thomas Kuhn ha definito nel libro “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” un “salto di paradigma”.

Per disimparare non ci sono ulteriori competenze da acquisire, ma nuovi rischi da assumersi. Qual è il momento giusto per saltare? 

Un paradigma è un modello pervasivo che va dalla grammatica per declinare nomi e coniugare verbi, fino a tutti gli altri ambiti del pensiero e dell’azione. È la capitalizzazione della nostra esperienza, il codice binario delle nostre soluzioni.

Secondo Watzlawick, Weakland e Fisch, quando si presenta un problema all’interno di un determinato contesto, abbiamo la tendenza a far ricorso all’esperienza sotto forma di riproposizione di interventi risolutivi che in passato hanno funzionato per problemi analoghi. 

Di fronte all’insuccesso di tali strategie, poi, piuttosto che ricorrere a modalità di soluzioni alternative, abbiamo la tendenza ad applicare con maggior vigore la strategia iniziale, nell’illusione che fare “più di prima” la renderà efficace. 

Questi tentativi di reiterare una soluzione che non funziona finiscono per dar vita a un complesso processo di retroazioni in cui sono proprio gli sforzi in direzione del cambiamento a mantenere immutata la situazione problematica, e quando le “tentate soluzioni” diventano il problema è ora di spiccare il balzo.

Nella mente di un principiante ci sono molte possibilità; in quella di un esperto, poche. È necessario dimenticare per disimparare?

Disimparare non significa dimenticare quello che ci ha spinto sino alla soglia del salto da compiere, ma vuol dire creare lo spazio affinché il paradigma che abbandoniamo non entri in azione automaticamente nel momento in cui stacchiamo i piedi dal suolo. 

Dal punto di vista neurologico, per disimparare dobbiamo sfruttare la neuroplasticità del nostro sistema nervoso, cioè la capacità del nostro cervello di modificare la propria struttura in risposta all’esperienza. 

Modificare i nostri rapporti sinaptici per costruire nuove connessioni o far fiorire quelle inattive, così da abbracciare il nuovo paradigma necessita di tempo: nel 1960 il chirurgo plastico Maxwell Maltz aveva stimato in ventuno giorni il tempo necessario alla creazione di un’abitudine, gli studi più recenti condotti presso lo University College di Londra hanno scoperto che sono necessari fino a 254 giorni per trasformare un’azione in abitudine e mantenerla.

Cosa significhi “saltare un paradigma” è splendidamente raccontato nell’esperimento della “Bicicletta all’indietro”condotto da Destin Sandler: un’esperienza in cui il protagonista, che guida una bicicletta tradizionale sin dalla più tenera età, impiega circa otto mesi per imparare a condurre una bicicletta il cui manubrio manovra la ruota anteriore in senso opposto a quello “tradizionale” e solo venti minuti, dopo lo spaesamento iniziale, per tornare a guidare perfettamente quella dotata di un piantone del manubrio classico. 

Insomma, per evitare la fine ingloriosa di Willy il Coyote che dà la caccia a Bip Bip saltando da un dirupo all’altro, quando pensiamo di saltare assicuriamoci di aver preso la giusta rincorsa e di continuare a correre anche dopo aver superato il guado.

Un lungo cammino inizia sempre con un piccolo passo. Salta il tuo paradigma cominciando a disimparare la porzione più minimale di esso. 

Un’unità elementare è il primo passo nella sequenza più lunga di ristrutturazione di un paradigma: ad esempio, formulare anche una sola domanda efficace durante un colloquio di feedback è il primo passo per avviare un processo interattivo e conversazionale, così come mettere una mela sul bancone della cucina è un primo passo per aumentare il consumo di frutta.

In altri termini, l’unità elementare è un riduttore di complessità attraverso cui scomponiamo il modello che intendiamo adottare per ingannare l’omeostasi, cioè è la tendenza degli esseri viventi a raggiungere una relativa stabilità, sia delle proprietà chimico-fisiche interne sia comportamentali, e proteggerla nel tempo, anche al variare delle condizioni esterne, attraverso precisi meccanismi autoregolatori.

Rendere automatica anche solo la più piccola versione del paradigma che desideriamo accogliere protegge la nostra transizione anche nelle situazioni in cui, per diverse ragioni, percepiamo di non avere le condizioni per applicarlo. 

Affinché questa astuzia ci ripari dalle oscillazioni della nostra motivazione devono sussistere due requisiti di esecuzione: il primo è l’unità elementare scelta per iniziare il nostro cammino sia semplice da svolgere, cioè richieda un basso livello di abilità nel portarla a termine con successo, il secondo è che sia sostenibile anche nello scenario peggiore in cui potremmo trovarci ad eseguirla. 

Infine, questo metodo richiede di celebrare in modo autentico i piccoli balzi che compiamo resistendo all’istinto di scoraggiarci perché non abbiamo ancora terminato la nostra rivoluzione copernicana. 

Per costruire nuovi modelli dobbiamo contaminare il pensiero con discipline apparentemente lontane, se non addirittura eretiche rispetto alle fondamenta del nostro sapere.

Shunryu Suzuki Roshi definisce mente del principiante, shoshin in giapponese, una mente nel suo stato originale spinta dalla convinzione che il futuro possiede tutto ciò che il presente non ha. 

Una mente colma di quanto ha memorizzato, ma non attaccata al desiderio di accumularlo e intrisa dell’originale desiderio di imparare, una mente capace di ripetere le stesse esperienze senza dare nulla per scontato, ogni volta come se fosse la prima, cercando di conoscere da zero.

Ma per chi ha accumulato strutture e sovrastrutture questo principio spesso citato dagli esperti di mindfulness è così difficile da mantenere nella routine: anche provando ad usare, per una settimana, la mano non dominante per compiere alcune azioni quotidiane, come aprire la porta, sostituiremmo certi automatismi ma non i modelli che impacciano i nostri balzi adattativi a contesti volatili, incerti, complessi ed ambigui.

Forse, senza ritornare bambini, potremmo riflettere sul rapporto che abbiamo costruito con il sapere: cerchiamo la conoscenza per la sua utilità, per le sue ricadute pratiche, o per la sua fecondità generativa?

E quale rischio corriamo ad imparare qualcosa che pregiudizialmente riteniamo inutile alla nostra vita in un mondo in cui la profilazione digitale è costruita sull’assunto di suggerirci solo contenuti che potrebbero piacerci?

 Bibliografia

Spagnoli L., Microlearning Change Habits Tips, https://www.lucianospagnoli.it/learning/

Bauman Z., “La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza”, Il Mulino, 2010

Kuhn T., “La Struttura delle Rivoluzioni Scientifiche”, Einaudi, 2009

Senzaki N, Reps P., “101 storie zen”, Adelphi, 1973

Suzuki-Roshi S, “Mente zen, mente di principiante”, Astrolabio Ubaldini, 1977

Goldsmith M., “Ciò che ti ha portato qui non ti farà andare avanti”, Tea, 2008

Lotman J., La semiosfera, Marsilio, 1985.

“Biciletta all’indietro”https://ed.ted.com/best_of_web/bf2mRAfC#watch

 

Le domande sono la risposta

Tutto comincia con “l’età dei perché” e chiunque abbia figli o sia particolarmente presente per i propri nipoti, sa che fra i due e i quattro anni, i bambini non smettono mai di domandare. 

Diversi studi accademici rivelano che le madri sono sottoposte a una raffica di circa 300 domande al giorno ed addirittura le madri delle bambine attorno ai quattro anni arriverebbero a ricevere sino a 390 domande al giorno, in media una ogni minuto e 56 secondi nell’arco di tempo che intercorre tra la prima colazione e la cena.

La percentuale di domande complesse cresce con il crescere dell’età sino a quando, come sostiene Edgar H. Schein, professore emerito della MIT Sloan School of Management, 

“privilegiamo il dire rispetto al domandare perché viviamo in un cultura pragmatica e orientata alla risoluzione dei problemi, che dà valore al sapere e al comunicare agli altri ciò che sappiamo”.

Le domande che comandano sono quelle che ponevamo da bambini quando costruivamo la nostra immagine del mondo.

La curiosità sembra spingere i bambini alla formulazione di quesiti che massimizzano l’apprendimento e facilitano la scoperta di nessi causali: in altri termini, tra diverse domande, la loro curiosità sembra dare più valore agli interrogativi che hanno una maggiore potenzialità di portare a delle scoperte.

Anche il comportamento esplorativo degli adulti sembra seguire schemi costanti ma, a differenza dei bambini, sembra che una delle funzioni chiave delle domande degli adulti sia quella di ridurre il più possibile gli errori di predizione.

Così, quando da adulti incappiamo in qualche fatto che sembra essere incompatibile con le nozioni preconcette riguardo al mondo che ci circonda, tendiamo a indagare il fenomeno attraverso domande che producano risposte idonee a ridurre l’incompatibilità o l’incoerenza di quello in cui ci siamo imbattuti.

Porre una domanda che comanda significa correre il rischio di generare ancora più incertezza delle convinzioni con cui misuriamo la realtà, provare ad entrare nelle aporie, negli universi di non comprensione, negli spazi di contraddizione anche dolorosa. 

Le domande che comandano cambiano le cornici entro cui finiscono per essere depositate risposte che già possediamo.

Le domande sono legate all’abilità metacognitiva della “connessione”, cioè la ricerca di collegamenti con le informazioni già in nostro possesso. 

Si potrebbe obiettare che ogni informazione con cui veniamo a contatto verrà comunque collegata a ciò che già conosciamo ma se, come sosteneva acutamente lo scrittore Marcel Proust, 

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è”,

la potenza delle domande che formuleremo di volta in volta rispetto ad una specifica questione, soprattutto quelle rivolte a tematiche di cui ci riteniamo sufficientemente esperti, ci renderà più o meno protagonisti del nostro viaggio di apprendimento, più o meno capaci di sostituire le cornici che già possediamo con nuovi telai che donino alla nostra conoscenza una nuova luce, ulteriori significati ed inediti utilizzi.

Le domande che comandano generano intuizioni creative

Il potere delle domande che generano nuove intuizioni e distendono nuovi orizzonti a chi non sa verso dove dirigersi nel suo riflettere, è stato esercitato sin nell’antichità dall’arte maieutica di Socrate. Il filosofo si sarebbe comportato come una levatrice, aiutando gli altri a «partorire» la verità attraverso domande e talvolta risposte tali da spingere l’interlocutore a ricercare in sé la verità, determinandola in maniera il più possibile autonoma.

La domande che comandano possiedono una sorta di sbalorditiva “proprietà catalitica” riscontrabile in chimica quando alcune reazioni che difficilmente avverrebbero, oppure che impiegherebbero giorni o anni per completarsi, possono invece innescarsi e completarsi nell’arco di poco tempo. Poiché, secondo Giorgio Nardone, 

“La maggioranza dei problemi non deriva dalle risposte che ci diamo ma dalle domande che ci poniamo”,

solo la qualità degli interrogativi che formuliamo può fortemente influenzare le risposte che troveremo e, quindi, le premesse per il tipo di azione che andremo a compiere o per l’interpretazione che daremo di un fatto accaduto.

Le domande che comandano non richiedono una risposta immediata.

Secondo Martin Heidegger la risposta è solo l’ultimissimo passo del domandare e una risposta che congeda rapidamente il quesito a cui replica non è in grado di fondare alcuna evoluzione, ma può solo consolidare il mero opinare.

Le domande che comandano possiedono un valore intrinseco che esula dalla risposta correlata perché, a volte, la forza di un interrogativo è quella di piantare dei semi nel nostro inconscio affinché possano fiorire nel tempo e cedere il frutto di quello che hanno di più essenziale: il dubbio. 

Nicolás Gómez Dávila ha affermato che per le scienze sarebbe grave se si perdessero le risposte, per la filosofia se si dimenticassero le domande.

Mentre concludo questo articolo penso a quale, tra le due privazioni, preferirei affrontare nel momento in cui dovessi scegliere forzatamente: resto incerto nel fornire una risposta convinta ad un dilemma generato da un quesito semplice ma non banale come solo le domande che comandano sanno essere. Sono in attesa di un’epifania.

Bibliografia

Schein E., L’arte di far domande. Quando ascoltare è meglio che parlare, Guerini 2014

Berger W., A More Beautiful Question, Bloomsbury Publishing, 2014

Ryan J.C., Wait, What? And Life’s Other Essential Questions, Harper One, 2017

Cornoldi C., Metacognizione e apprendimento, il Mulino, Bologna,1995.

Giovannini L., Il potere delle domande, Sperling & Kupfer, 2014

Livio M., Curiosi, L’arte di fare le domande giuste nella scienza e nella vita, Rizzoli 2017

 

 

 

Tentar non nuoce

Nel 1985, ben prima che più di ventiquattro milioni di visualizzazioni celebrassero il video in cui Elon Musk raccontava con ironia i sette anni di gloriosi fallimenti di Space X,  Umberto Eco, al debutto sulle pagine dell’Espresso, dedicava la sua prima storica Bustina di Minerva alla celebrazione dell’errore e del caso come strumento di scoperta.

Rinomati, a proposito di questo tema, gli esempi di Steven Spielberg accettato dalla scuola di cinema al quarto tentativo, dei dodici rifiuti ricevuti da J.K. Rowling prima di trovare il suo editore, del primo aspirapolvere funzionante costruito da James Dyson dopo 5.127 tentativi ed infine, dell’arcinoto Thomas Edison che produsse circa migliaia di prototipi prima di creare una vera lampadina. 

Per quanto ciò possa infastidirci, abbiamo bisogno di sbagliare continuamente nel corso della nostra esistenza per poter imparare, si spera, a fare nuovi errori, nella speranza che essi siano fecondi.

Saper fallire significa commettere errori che incrementano la nostra conoscenza. 

Secondo i risultati di uno studio condotto dall’Università John Hopkins, il nostro cervello impara più velocemente dalla ripetizione di un compito motorio, non solo per una ragione legata alla memoria del compito in sé, ma anche grazie agli errori commessi durante l’apprendimento.

L’assimilazione di questa tipologia di compito, infatti, attiva contemporaneamente due processi: uno che immagazzina le novità, impegnandosi nell’apprendimento dei comandi motori; l’altro che si dedica agli errori, memorizzando gli sbagli che sono più degni di attenzione.

Questo secondo processo lascia un ricordo degli errori che si sono verificati, rendendo le esperienze successive migliori e più rapide: il cervello, notando le differenze tra come si aspettava che l’azione corretta si dovesse svolgere e come effettivamente si è svolta, usa queste informazioni per eseguire l’attività più agevolmente, la volta successiva. Queste piccole differenze sono definite scientificamente “errori di predizione” e la loro elaborazione è in gran parte inconscia. 

Possiamo raggiungere risultati rilevanti anche quando commettiamo un errore.

Pensiamo di percepire il mondo per come esso è, ma il nostro cervello non è uno specchio, né riceve informazioni sufficienti per riprodurre fedelmente la realtà che ci circonda: poiché il mondo che abitiamo è tridimensionale ma la sua immagine sulla retina è bidimensionale, non percepiamo direttamente le distanze, ma dobbiamo affidarci a stratagemmi intelligenti, basandoci su indizi come le ombre, le luci e la prospettiva;

Gli psicologi della Gestalt hanno ampiamente utilizzato le illusioni ottiche per spiegare come alcuni errori percettivi, definiti da Von Helmholtz inferenze inconsce, possano comunque produrre risultati tanto buoni da far affermare a Gigerenzer:

l’intelligenza non è la capacità di riprodurre accuratamente ogni singola informazione, ma l’arte di indovinare a partire dalle informazioni a nostra disposizione. Il sistema visivo, ad esempio, non è un buon misuratore fisico della luce, ma non è questo il suo scopo. Deve andare oltre le informazioni che riceve e fare ipotesi su quello che c’è nel mondo reale. Commettere questi errori non è un difetto; se non ne facessimo non riconosceremmo gli oggetti intorno a noi”

Difendersi dal fallimento significa negare il principio su cui si basa la natura.

In ogni processo innovativo naturale, l’errore svolge un ruolo determinante: non ci sarebbe il nostro universo senza un’asimmetria spaziale insita nel Big Bang, non ci sarebbe un’evoluzione naturale delle diverse specie se il DNA non commettesse errori nella sua duplicazione.

In natura, insomma, se alla base del “nuovo” si nasconde sempre un errore, forse, è necessario convincersi che un risultato indesiderato sia fondamentale anche per la cultura e per molte delle attività umane. 

Le idee, e in particolare le idee innovative, sono frutto di esplorazioni, spesso casuali e non logiche, ed è giusto ricordare che solo grazie a un grandissimo numero di questi processi esplorativi si è giunti a risultati di utilità, all’errore giusto. Gli altri, utilizzando una forma paradossale, sono errori sbagliati.

Per coltivare la cultura dell’errore dobbiamo silenziare il senno di poi. 

Sintetizzabile in quella vocina stridula che esclama “Te l’avevo detto!”, il fallimento sembra più prevedibile dopo che è già accaduto.

Il termine Hindsight Bias si riferisce alla tendenza che le persone hanno a vedere gli eventi come più prevedibili di quanto non siano in realtà. Prima che si verifichi un evento, sebbene possiamo essere in grado di offrire un’ipotesi sul risultato, non c’è davvero alcun modo per sapere effettivamente se falliremo.

Il senno di poi può influenzare negativamente la nostra propensione al rischio e, quindi, anche la nostra relazione con il fallimento, perchè parte di ciò che serve per prendere buone decisioni è valutare realisticamente le conseguenze degli errori che possiamo compiere. 

Se guardiamo indietro alle decisioni passate e concludiamo che le loro conseguenze ci erano effettivamente note all’epoca (quando non lo erano), allora sovrastimeremo la nostra capacità di prevedere le implicazioni delle nostre decisioni future e la nostra eccessiva sicurezza può portarci a non compiere errori che potrebbero rivelarsi fruttiferi.

Alcune evidenze empiriche dimostrano che i fallimenti attraggono più dei successi

Nel 2016, Johannes Haushofer, professore di psicologia e neurobiologia all’Università di Princeton, decise di pubblicare su twitter il suo curriculum dei fallimenti che elencava i progetti mai portati a termine, le promozioni mai arrivate, gli articoli rifiutati dalle riviste scientifiche. 

Già qualche anno prima, il creativo Jeff Scardino aveva sperimentato il fascino esercitato dei propri fallimenti attraverso una doppia candidatura a dieci annunci di lavoro nell’area di New York City in cui proponeva un regular resumé e, in alternativa, un relevant resumé attraverso cui ottenne ben otto risposte e cinque richieste di colloquio.

Rufus Griscom, il fondatore della rivista online per genitori e della rete di blog Babble, fallì diverse presentazioni ai venture capitalist presentando i successi ottenuti dalla propria start up sino al 2009 quando, cambiando totalmente tattica, iniziò a elencare i diversi motivi per non finanziare la propria azienda raccogliendo oltre 3,3 milioni per poi vendere nel 2011, attraverso la medesima tecnica, la propria creatura alla Disney Corporation per 40 milioni di dollari.

Cosa vuol dire celebrare il fallimento?

Non sono convinto che i miei errori meritino un museo come quello allestito dallo psicologo Samuel West a Helsingborg in Svezia per festeggiare i più clamorosi fiaschi della storia. 

Forse, per iniziare questo nuovo anno, desidero misurarmi con una sfida che sfrutti il mio orgoglio in modo contro intuitivo rispetto a quanto fatto sino ad ora.

Così, ho deciso di introdurre anch’io nella mia value proposition una slide che elenca qualche buon motivo per non essere scelto dalle organizzazioni presso le quali mi accredito. 

Svelando i miei limiti e i miei retroscena, voglio sperimentare la prospettiva di chi non trattiene il respiro per nascondere la pancetta al primo appuntamento, riservandosi poi di allargare la cinghia quando una certa continuità di collaborazione renderà meno pericoloso chiamare una parte dell’esperienza maturata con il nome di fallimento.

Poiché la redazione di questa slide si rivelata più faticoso del previsto ed il risultato non mi ha soddisfatto pienamente, ho abbandonato questo compito per dedicarmi ad altro.  L’ho ripresa qualche giorno fa quando ho letto una frase di Reid Hoffman, co-fondatore di Linkedin che recita:

“Se non ti vergogni della prima versione del tuo prodotto significa che l’hai lanciato troppo tardi” 

ma che per qualche meccanismo associativo ho modificato in questo modo per adattarla al mio scopo: 

“Se non ti vergogni almeno un poco della prima versione del tuo prodotto significa che non hai commesso nessun errore da cui puoi imparare”.

Bibliografia

Baldriga P., Guarnieri R., “Coaching e neuroscienze”, ilmiolibro-self-publishing, 2018

Gigerenzer G., Imparare a rischiare: come prendere decisioni giuste, Raffaello Cortina, 2015

Mercandini R., Storia perfetta dell’errore, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli 2019 

Sutton R., Idee strampalate che funzionano. Come promuovere la creatività e l’innovazione nell’ambiente di lavoro, Elliot, 2008

Grant A., Essere originali. Come gli anticonformisti cambiano il mondo, Hoepli, 2016

https://www.youtube.com/watch?v=bvim4rsNHkQ

https://espresso.repubblica.it/visioni/cultura/2016/02/25/news/umberto-eco-che-bell-errore-prima-bustina-minerva-1.251605

http://www.jeffscardino.com/the-relevant-resume/

 

 

nte al feedback che siamo in procinto di ricevere sulla base di quanto percepiamo attrattivo o minaccioso il tema su quale ipotizziamo si svilupperà la conversazione.